martedì 4 novembre 2008

Università: verso il modello americano

Privatizzazione, tagli, blocco delle assunzioni. Questi, in sintesi, i tre pilastri dei provvedimenti sull’università contenuti nella legge 133/2008. Già, perché questa legge non è una riforma organica dell’università; al suo interno si parla degli argomenti più disparati: dall’università all’energia, dalle infrastrutture ai servizi pubblici locali. Il titolo di tale legge è "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 giugno 2008, recante disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria". Stupisce che si possa parlare di competitività, tagliando i finanziamenti e bloccando le assunzioni proprio nel settore della ricerca.
Ma quali sono i punti incriminati di questa “miniriforma” dell’università? Innanzi tutto, essa concede ai singoli atenei la possibilità di tramutarsi in fondazioni di diritto privato, in modo tale da potersi aprire ai finanziamenti di soggetti non pubblici, quali le aziende. Qualcuno potrà obiettare che questa è solo un’opportunità e non un obbligo per le università. Questo è vero; ma se da un lato tagliamo il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) – la principale fonte di sostentamento delle università italiane – per complessivi 1,5 miliardi nei prossimi cinque anni, e dall’altro concediamo loro la possibilità di accettare finanziamenti privati, in realtà stiamo ponendo gli atenei di fronte a una scelta obbligata: privatizzarsi o chiudere. Qualcun altro potrà obiettare che in fondo una tale trasformazione non è necessariamente un male; si, forse con la privatizzazione, avremmo università con strutture più belle, magari con servizi più efficienti, magari con meno sprechi sul piano amministrativo, ma sicuramente avremmo un’università e una ricerca meno autonome e piegate alle esigenze di chissà quale lobby o gruppo industriale. E in secondo luogo avremmo un’università non più pubblica e, in quanto tale, libera di aumentare le tasse – il cui contributo massimo è oggi fissato al 20% del FFO ­– indiscriminatamente, consentendo l’accesso a un numero sempre più esiguo di persone.
Si va quindi verso un modello americano di diritto allo studio; un modello nel quale gli abbienti studiano sempre e comunque, i meno abbienti studiano solo in caso di comprovata eccellenza, lottando tra loro per l’assegnazione di un piccolo numero di borse di studio. Un modello di istruzione classista, figlio di una deriva liberistica che accetta con bieca indifferenza il proliferare delle disuguaglianze sociali.
Alessandro Marinucci

1 commento:

Gianluca ha detto...

Purtroppo si scade nel liberismo più sfrenato proprio quando nei Paesi tradizionalmente più liberisti si pensa di modificare il sistema, di riformarlo prevedendo una più ampia presenza del settore pubblico. Non solo in materia universitaria ma anche nel settore sanitario e in quello economico. Una riflessione è d' obbligo: continuiamo a prendere il peggio da ogni ordinamento straniero perchè fondamentalmente non ci sono idee e soluzioni. Questa situazione è imputabile alla scarsa abilità politico-governativa delle classi dirigenti che si "dividono" ( è il caso di dirlo ) il potere. Credo sia giunto il momento di far capire come vogliamo vivere il nostro presente e come vorremmo vivere il nostro futuro.
Gianluca Cervale